I (mica tanto) beati anni del castigo

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“Cercavo una lettura leggera” è quello che dico ogni volta che termino un libro dal peso emotivo di cinquecento tonnellate. L’immagine di Hermione che sbatte sul tavolo un tomo gigantesco facendo alzare una nuvola di polvere rende bene l’idea. In questo caso stiamo però parlando di un libricino di sole centosette pagine. Si legge in meno di due ore ma lascia il segno. Se vi piacciono i libri dall’atmosfera tetra, ambientati in vecchi collegi e intrisi di turbe psichiche quest’opera di Fleur Jaeggy fa per voi.

Oltre ad essere un libro estremamente breve è anche scritto benissimo. L’autrice ha uno stile essenziale e limpido. Già dalle primissime righe si viene catapultati nella mente della voce narrante, probabilmente un alter-ego dell’autrice, che ci racconta in maniera quasi fotografica una storia ormai passata. Per due ore sarà come camminare fianco a fianco alle studentesse del collegio (figlie di un’Europa che cercava di riprendersi dopo il dramma della Seconda Guerra Mondiale).

LA TRAMA

“E forse furono gli anni più belli, pensavo. Gli anni del castigo. Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo,  nei beati anni del castigo.”

Anni ’50. Svizzera, nello specifico siamo nel distretto di Appenzello. La protagonista frequenta un collegio femminile per volere della madre, che dal Brasile prende ogni decisione riguardante la sua educazione. La ragazza, ad esempio, deve necessariamente dividere la stanza con una ragazzotta tedesca per imparare bene la lingua (le continue imposizioni porteranno la protagonista a detestare la povera compagna di stanza, ad un pessimo rendimento scolastico e a ribellarsi, ma questa è un’altra storia).

Il libro si apre con un’immagine inequivocabile: il corpo dello scrittore svizzero Robert Walser rivolto a faccia in giù nella neve. La protagonista immagina di essere trovata nella stessa posizione. Questo per capire la pace mentale che regna in lei.

La sua vita monotona e cupa cambia quando al collegio arriva una ragazza di nome Fréderique. Tra le due nasce un’amicizia molto elitaria e delicata. Fréderique non si concede a nessuno, è superiore a tutte: è la più affascinante, elegante e intelligente, almeno secondo la protagonista che si è innamorata di lei. Naturalmente si tratta di un amore del tutto platonico. Le due ragazze si parlano e si confidano ma mai con scioltezza  e fiducia. Fra lei due è come se esistesse una linea invisibile che non permette neppure di avere contatti fisici. Le altre amiche si tengono la mano e si abbracciano, ma loro no. La protagonista studia e osserva questa ragazza così “perfetta” con ossessione e morbosità. Vorrebbe assomigliarle tanto la stima, per questa ragione inizia persino a imitare la sua calligrafia. In confronto a Fréderique, i modi della protagonista sono acerbi e rudi, se ne rende conto da sola. Ma d’altronde non ha nessuna vera esperienza di vita.

“Come si vede, non avevo ancora imparato l’arte di mediare, pensavo ancora che per ottenere qualcosa bisognasse andare diritti allo scopo, mentre sono soltanto le distrazioni, la vaghezza, la distanza che ci avvicinano al bersaglio, è il bersaglio che ci colpisce.”

La vita nel collegio, nonostante la perfetta nuova arrivata, scorre sempre uguale. Ci sono le più grandi che ormai si sentono quasi libere e pronte a spiccare il volo nella vita vera. Poi ci sono le più piccoline, desiderose di essere prese sotto un’ala protettrice. Per essere accettate sono disposte a tutto. Marion, ad esempio, vorrebbe adorare la protagonista ma viene brutalmente rifiutata. Alla nostra narratrice non importa avere una sorta di servetta. A lei interessa Fréderique. Ma… arriva un’altra ragazza e gli equilibri delicati che governano il collegio vengono nuovamente sconvolti. La nuova educanda si chiama Micheline ed è l’opposto di Fréderique, è esuberante e fisica, parla e abbraccia; è in questo frangente che la fredda Fréderique si allontana definitivamente dalla protagonista. Sparisce dalla sua vita con la stessa delicatezza con cui vi era entrata. Va via dal collegio e non si vedono più per diversi anni.

IL FINALE

Quando le due donne si incontrano tutto sembra cambiato. La protagonista ha acquisito la libertà ribellandosi alle decisioni rigide riguardanti la sua educazione. Fréderique, la studentessa modello, vive invece in un edificio spoglio e fatiscente. Ha conquistato anche lei la libertà dalla vita già scritta che la famiglia le aveva imposto ma è una sorta di spettro. La salute mentale di Fréderique è instabile e lo conferma l’incendio che appiccherà poco tempo dopo. Brucerà la casa di sua madre finendo infine in manicomio. Il finale richiama l’incipit in cui la protagonista si immaginava morta come Robert Walser, il quale fu internato in una clinica dell’Appenzello a causa della sua malattia mentale. Le ultime righe del romanzo fanno accapponare la pelle per cui non ve le spoilero…

Vi lascio invece un altro passaggio molto interessante.

“Mi sembra, come per i morti, di aver lasciato in sospeso qualcosa, una conversazione, e quella conversazione continuiamo a tenerla, rivolgendoci agli scomparsi, anche se una certa smemoratezza ci accompagna nel vegliare le conversazioni mancate. Se i loro visi si dimenticano, se alcuni tratti sbiadiscono, come se fossero stati dipinti, rimangono solo le voci, una specie di monologo, che crediamo senza risposta. Ma, da qualche parte, rispondono. O per dispetto stanno zitti.”

voto: 8

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